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Con gli occhi chiusi

Affioramenti e dissolvimenti, da dentro un corpo

Aggirandosi tra le opere di Roberto Giulio Fontana ci si trova a vagare tra segni di una pittura inesorabile, che ci trafigge con la sua costitutiva ambiguità. Dove siamo e dove ci conducono occhio e mano dell’artista?

Mentre familiarizziamo con anatomiche conoscenze – da impasti senescenti tizianeschi a torsioni michelangiolesche, virando magicamente nel dark più sulfureo per cadere poi a terra in preda a vertigini alla Tintoretto – ci troviamo pure noi “spettatori” con le palpebre serrate, per occhi incapaci a reggere la Luce. Questo teatro di inquietudini chiaroscurali, fuori dal tempo, in un fumoso, indefinito, allucinato spazio, con dettagli imbruttiti di crateri selve e pantani, non è altro che la mise en scène per la nostra sottomissione corporale.

La cifra fondamentale è: la carne è es-posta. Viva o morta o dormiente che sia, la carne è sola ed ex-posta. Buttata in un fuori innominabile, se senziente vuole obliarsi, non vedersi nella propria infermità. E se ha smesso di sentire è comunque oltraggiata dallo sguardo dello spettatore, dalla sproporzionata indifferente di paesaggi-capezzali ed animali-feticcio. E il fatto fondamentale viene esaltato e sorpreso da una luce artificiosa, quasi esterna alla scena, una luce che, parafrasando Benjamin, balena cruda nel buio delle implicazioni.

Ebbene, siamo nell’ennesima, consumata waste land? Ma che razza di terra “guasta” è questa? In che desolazioni siamo gettati? O non sono dettagli ed echi di dannazioni da Giudizio Universale? In questo senso La caduta degli angeli ribelli avrebbe un valore programmatico: il bios emerso da inesorabili abissi marini, sulla soglia della putrefaetio, fissato nell’attimo della calca pronta a marcire e puzzare…se può darsi sviluppo, peripezia, trama, la si può rintracciare nel persistere, nel perseverare in un ambiente stravolto ed ostile in cui si può vivere solo con gli occhi chiusi. O piuttosto dovremo pensarci in un mondo parallelo, di cupe atmosfere, da migrerò o magia nera, che attendono la loro sublimazione? O, meno alchemicamente, un mondo intermedio, in cui non si dà Eros né Thanatos, perché le pulsioni di vita e di morte sono già alle nostre spalle?

Un presente assoluto, con uno spettatore incalzato, in simbiosi con  l’uomo dipinto, da una bestia senza pace: la celebre lupa che ci respinge perennemente “là dove ‘l sol tace”. Le presenze animalesche rappresentano un contrappunto all’umano. Un ambiente in-animato da figure bestiali, sagome allarmanti ed insidiose e primordiali, da giustapporre ai corpi umani. Le presenze animalesche sono le stigmate del molesto, del deprecabile, del famelico, del grooming. Nei casi più consolanti: un accostamento alieno, nella sua atarassia, alle ferite dell’umano (cfr. Visione e Marsia). Scimmie, babbuini neghittosi, primati che non casualmente intuiamo con musi canini, lupeschi, mascelle forti e magre, occhi acquosi e vuoti in cui si specchia il nostro sguardo. Primati inermi ed apatici di fronte al nostro groviglio.

Meglio chiudere gli occhi. O averli trafitti con Edipo, che vediamo raffigurato in una texture gestuale (cfr. Edipo) assalito da torme animalesche in pennellate rapide ed incisive, mentre prova ancora a difendersi dal fato – ancora con occhi? con orbite che possono percepire? non è addirittura acefalo? Raffigurando ed osservando l’agone edipico l’occhio pittorico produce questa consapevolezza: si lotta invano. Nulla si può contro equivoci, enigmi, destini, incesti, pestilenze, errante. Siamo per lo più sdraiati nudi sulla nuda terra. Legati all’albero, in attesa della punizione innescata dalla nostra hybris, sottomessi ai decreti di gare truccate in partenza (Marsia) o sospesi nell’indigenza e nel torbido della mela (vedi la serie Spiaggia).

Il gesto del braccio serve solo all’istinto inutile di ripararsi dall’immane (Edipo, Le montagne della luna). Il dorso della mano a rinforzare il sigillo delle palpebre serrate (Inopia). E qui l’appunto è (con Eliot: “una delle qualità del vero poeta è che nel leggerlo ci ricordiamo di remoti predecessori, e nel leggere i suoi remoti predecessori ci ricordiamo di lui”): lo Schiavo non ha da esser legato, è già tutto dentro i suoi invisibili lacci e dentro il suo supplizio, in questi cieli non può librarsi l’Evangelista per liberarlo…

Non esiste medicamento, s’è persa traccia, fosse anche mnemonico-utopica, di una qualsiasi liberazione. (E l’Aretino, chiosando lo schiavo, avrebbe sottolineato: “i suoi colori son carne…et il suo corpo vivo!”). Tanto quanto il pennello, la sapienza tecnica ci restituiscono un corpo “vivo”, tanto più patiamo l’idea di una vita che non palpita, né scende né ascende, che solo sa il dissolvimento della volontà-fine. Corpo vivo che sta tutto nella sua nuda infermità sospesa: la vulnerabilità dell’essere abbandonato “in vita”. Qui la Leggenda ha da essere non-aurea: esercitata in corpore vili, su una carne “senza importanza”, “caduta”, esposta al danno e all’ingiuria.

La capacità pittorica di darci carni vive giunge, all’estremo della peripezia, ad uno slittamento progressivo del virtuosismo: con particole di pelle che sembrano autonomizzarsi in preziosismi lenticolari, con una precisione agonistica che configge con il resto del corpo…

C’è la formula del dettaglio corporeo (torsi, teste), esposto a parassitismi, dermatosi, ustioni e suture epidermiche, nell’apoteosi davvero finale del volto duplex del Ragno; due persone in una, una parte truce e una parte mansueta, il Ragno è pronto alla sfida del tenere gli occhi ben aperti fino alla fine.

Massimo Ferrante